Due persone entrano in un bar. Una di queste ordina per entrambe: un caffè normale e un decaffeinato. Il decaffeinato sarà consegnato alla persona sbagliata. Anche il caffè normale. Una delle due persone è una donna. A chi sarà arrivato il decaffeinato?
La risposta non è intuitiva solo per chi non ci ha mai fatto caso. Un uomo, per esempio.
Perché se io, donna, mi trovo con qualcuno – sottintendo di genere maschile – e lui ordina una Coca-Cola e io una birra, la Coca-Cola viene portata a me? Eppure ero stata io a ordinare la birra. Perché il succo al mirtillo, il cappuccino e la spremuta arrivano a me? Io volevo solo un caffè. Amaro, se possibile. Neanche mi piacciono i mirtilli.
Non è violenza di genere questa, direte, e avete ragione. È solo genere. È discriminazione.
Il problema, d’altra parte, non è vostro se il cameriere sbaglia l’ordine, e se si confonde anche la cameriera, tanto è abituata a dare le spremute a chi non le ha mai chieste. Il problema, probabilmente, è solo nostro, di noi donne che vogliamo un caffè normale, e lo preferiamo amaro, anche se “non sei già troppo nervosetta?”
Ed è ancora nostro, di noi donne che chiediamo una birra, magari piccola, perché media fa brutto, e spesso bionda, perché tanto cosa ne capiamo di birre, e chiediamo solo di berla in pace. Eppure le birre le chiamano anche come noi: sono rosse, bionde, chiare, scure, ambrate e pure con diversi gradi di fermentazione. Che poi, l’alcol neanche ci si addice. È giustificabile solo quando non riusciamo più a reggerne gli effetti.
È vero che il problema è solo nostro, quando non possiamo sederci in autobus con una gonna corta e rimaniamo in piedi per non accavallare le gambe. Quando tiriamo su una maglietta che non sembrava così scollata oppure che, prima di uscire di casa, ci piaceva proprio per questo, ma che non metteremo più. Quando giriamo l’angolo svelte e ci guardiamo indietro, perché abbiamo sentito un rumore di passi, e invece non c’era nessuno.
Il problema è nostro, quando camminiamo veloci la mattina e, davanti a uno sguardo indiscreto, a un commento fuori luogo o a un clacson accompagnato da finestrino abbassato e fischio di incoraggiamento, non sappiamo se rispondere o restare mute. E spesso rimaniamo mute, sorridiamo anche. A chi ci tocca i fianchi senza che ci sia confidenza, a chi ci guarda a lungo senza preoccuparsi di metterci a disagio, a chi non si ferma per farci attraversare sulle strisce, eppure la testa l’ha girata.
Secondo l'Osservatorio Nazionale Non Una di Meno, in Italia, dall’inizio del 2025, sono stati registrati almeno 78 femminicidi: una donna ogni tre giorni. È curioso vedere che, nonostante il termine sia ormai così tristemente diffuso, Word continui a sottolinearlo in rosso, come errore. Orrore, invece, è sapere che Word non è l’unico a considerare il femminicidio come un fenomeno fuori dalla realtà.
Non mi riguarda finché non succede a mia sorella, a mia madre, alla mia compagna delle medie.
Il problema non sussiste, il problema siamo noi.
Se sorridiamo, l’abbiamo incoraggiato. Se acceleriamo il passo, siamo paranoiche. Se cambiamo strada, l’abbiamo sognato. Se ci viene gridato un commento inadeguato, non abbiamo apprezzato. Se ci irrigidiamo, l’abbiamo inventato. Se non facciamo nulla, non siamo intervenute. Se lo facciamo notare, non sappiamo stare al gioco.
Se chiediamo spazio, ci viene detto che lo abbiamo, di non pretenderne ancora, che siamo già fortunate, che nessuno ci desidererà così come siamo desiderate adesso, che eravamo meglio prima, che ci siamo lasciate andare e non apprezziamo ciò che abbiamo: un fidanzato, un amore potente, un appartamento condiviso, un gatto o un cane, un figlio.
Se chiediamo tempo, ci viene urlato che non ne meritiamo, che lo passeremo insieme, che non abbiamo bisogno di altro, che se cerchiamo altrove allora significa che non ci rendiamo conto di quello che abbiamo, che siamo delle stupide, delle immature e ce ne pentiremo.
Se chiediamo comprensione, ci viene gridato che l’abbiamo sempre avuta, anche quando ci siamo comportate male, quando abbiamo litigato, quando abbiamo detto che avremmo voluto lasciarlo e quando siamo andate via di casa per un giorno e non abbiamo più risposto ai messaggi e poi, alla fine, abbiamo risposto a una chiamata.
Quando chiediamo rispetto, strillano che siamo isteriche, esaurite, folli, che vivono per vederci felici, che siamo la cosa più preziosa che esiste e per questo ci tengono nascoste dentro una stanza, dietro i vestiti larghi, lontano dagli amici e da chi potrebbe farci venire strane idee.
Quando chiediamo attenzione, sbraitano di non esagerare, che abbiamo già tutto, che le altre pagherebbero per avere un amore come il nostro, puro, sincero, senza ombre, così sicuro da poterci morire all’interno. E ne moriremo.
Ci verranno date carezze infinite, poi uno schiaffo, un abbraccio, un pugno, un calcio e un bacio. E quando ci verrà data l’ultima spinta, precipiteremo.
Quando chiederemo amore, sarà troppo tardi. Ci diranno che l’abbiamo avuto, che siamo delle ingrate, che ci hanno portato fiori, ci hanno dedicato poesie, ci hanno suonato canzoni, ci hanno permesso di lavorare e di uscire la sera, ci hanno reso madri.
Quando sarà finita e non avremo voce, scriveranno titoli di giornale in cui ce la saremo cercata e giustificheranno chi ci ha ucciso: troppo libera, esuberante, bella, maliziosa, alta, pensante, audace, castana, indipendente, sensibile, ambiziosa, troppo poco presente.
Quando non ci saremo e quella mano sarà diventata arma, quella parola acido e quel commento veleno, sarà il turno di un’altra.
Quando ci ammazzeranno, mancheranno altri due giorni.
Ma oggi, quando entreremo in un bar e chiederemo un caffè normale, ci verrà dato ancora un decaffeinato.